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tutta la letteratura che ci ispira...

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LiriCeleste
view post Posted on 24/5/2007, 15:39




Ho trovato spesso in grandi e piccoli autori inaspettati insegnamenti, immagini che mi hanno scosso o divertito o emozionato.
Ciò che le rende belle è soprattutto il modo in cui vengono espresse, poiché quando si usano le parole, è fondamentale riuscire a comunicare esattamente quello che si sente o si voleva dire. In questo sono grandi maestri.

Che ne dite di fare una bella raccolta ? ;)

Io comincio con questa bella poesia di Umberto Saba, mi piace moltissimo la sua semplicità. ^_^ (è anche un grande insegnamento)


Città Vecchia

Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un'oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.

Qui tra la gente che viene che va
dall'osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l'infinito
nell'umiltà.

Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d'amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s'agita in esse, come in me, il Signore.

Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.


:13.gif:
 
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LiriCeleste
view post Posted on 25/5/2007, 10:50




Ecco qui Proust, è incredibile come riesca a rendere la dimensione della coscienza e del tempo... ;)
A tratti lo trovo anche "quantistico" :B):

(scusate la lunghezza :lol: )

Da "la ricerca del tempo perduto" (primo volume)


Per molto tempo sono andato a dormire presto. A volte, appena spenta la candela, i miei occhi si chiudevano così subitamente che non avevo nemmeno il tempo di dirmi: «Mi addormento» e, mezz'ora dopo, il pensiero che era tempo di cercare il sonno mi svegliava; volevo posare il libro che credevo di avere tra le mani, soffiare sul lume; non avevo smesso dormendo di riandare con il pensiero a ciò che avevo letto, ma quelle riflessioni avevano preso una piega un po' particolare; mi sembrava di essere io stesso l'oggetto di cui il libro parlava: una chiesa, un quartetto, la rivalità tra Francesco I e Carlo V. Questa certezza sopravviveva per qualche secondo al mio risveglio; non contrastava con la mia ragione, ma pesava come squama sui miei occhi e gli impediva di accorgersi che la candela non era più accesa. Poi cominciava ad apparirmi inintelligibile come i pensieri di un'esistenza anteriore dopo la metempsicosi; l'argomento del libro si staccava da me, ero libero di dedicarmicisi o no; ben presto riprendevo a vedere ed ero stupito di trovare intorno a me un'oscurità dolce e riposante per gli occhi, ma forse più ancora per il mio spirito, al quale appariva immotivata, incomprensibile, come una cosa veramente oscura. Mi chiedevo che ora potesse essere; udivo il fischio dei treni che, più o meno lontano, come il canto di un uccello in un bosco, dando il senso delle distanze, mi descriveva la distesa della campagna deserta dove il viaggiatore si affretta verso la vicina stazione; e il sentiero che percorre resterà impresso nel suo ricordo per l'eccitazione che suscitano in lui luoghi nuovi, gesti inconsueti, la recente conversazione, gli addii sotto la lampada estranea che lo seguono ancora nel silenzio della notte, la dolcezza prossima del ritorno.
Appoggiavo teneramente le guance contro le belle guance del cuscino che, piene e fresche, sono come le guance della nostra infanzia. Accendevo un fiammifero per guardare l'orologio. Quasi mezzanotte. È il momento in cui il malato che costretto a partire in viaggio ha dovuto coricarsi in un albergo sconosciuto, svegliato da una crisi, si rallegra scorgendo sotto la porta un raggio di luce. Meno male, è già mattina! Tra pochi istanti i domestici saranno alzati, potrà suonare, gli porteranno aiuto. La speranza che il dolore gli venga alleviato gli da il coraggio per sopportare la sofferenza. Effettivamente ha creduto di udire dei passi; i passi si avvicinano, poi si allontanano. E il raggio di luce sotto la porta è sparito. È mezzanotte; hanno appena spento il gas, l'ultimo inserviente se ne è andato e bisognerà restare tutta la notte a soffrire senza rimedio.
Mi riaddormentavo, e a volte non avevo che brevi risvegli di un istante, il tempo di udire gli scricchiolii organici del legno, d'aprire gli occhi per fissare il caleidoscopio dell'oscurità, di gustare grazie a un momentaneo barlume di coscienza il sonno in cui erano immersi i mobili, la stanza, quel tutto di cui non ero che una piccola parte e alla cui insensibilità tornavo presto ad unirmi. O addirittura dormendo avevo raggiunto senza sforzo un'età definitivamente conclusa della mia vita primitiva, ritrovato qualcuno dei miei terrori infantili, quello, per esempio, che il mio prozio mi tirasse i riccioli e che era svanito il giorno in cui — inizio per me di una nuova era — me li avevano tagliati. Avevo dimenticato quell'episodio durante il sonno, ne ritrovavo il ricordo non appena ero riuscito a svegliarmi per sfuggire alle mani del prozio, ma per misura precauzionale circondavo completamente la testa con il cuscino prima di ritornare nel mondo dei sogni.
A volte, come Èva nacque da una costola di Adamo, una donna nasceva durante il sonno da una falsa posizione della mia coscia. Formata dal piacere che stavo per provare, mi immaginavo fosse lei ad offrirmelo. Il mio corpo che sentiva nel suo il mio stesso calore voleva congiungervisi, mi svegliavo. Il resto dell'umanità mi appariva come estremamente lontano accanto a questa donna che avevo lasciato da appena pochi istanti; la mia guancia era ancora calda del suo bacio, il mio corpo indolenzito dal peso del suo. Se, come capitava a volte, aveva i lineamenti di qualcuna che avevo conosciuto nella vita, mi dedicavo interamente a quell'unico scopo: ritrovarla, come coloro che partono in viaggio per vedere con i loro occhi una città desiderata e credono possibile provare nella realtà il fascino dell'immaginazione. A poco a poco il suo ricordo svaniva, avevo dimenticato la donna del mio sogno.
Un essere che dorme tiene in cerchio attorno a sé il filo delle ore, l'ordine degli anni e dei mondi. Li consulta istintivamente svegliandosi e vi legge in un attimo il punto della terra che occupa, il tempo trascorso fino al suo risveglio; ma i loro ranghi possono intrecciarsi, rompersi. Se verso il mattino, dopo qualche ora di insonnia, il sonno lo coglie mentre sta leggendo, in una posizione troppo diversa da quella in cui dorme abitualmente, basta il braccio sollevato a fermare e far tornare indietro il sole, e al primo istante del risveglio non saprà più l'ora e penserà di essersi appena coricato. E se si assopisce in una posizione ancor più spostata e divergente, per esempio dopo pranzo seduto in poltrona, allora lo sconvolgimento sarà totale nei mondi sbalzati dalla loro orbita, la poltrona magica lo farà viaggiare a tutta velocità nel tempo e nello spazio, e al momento di aprire le palpebre crederà di essersi coricato qualche mese prima in un altro paese. Ma bastava che, nel mio letto, il sonno fosse profondo e distendesse completamente il mio spirito; allora esso abbandonava il luogo in cui mi ero addormentato e, quando mi svegliavo nel cuore della notte, siccome ignoravo dove mi trovassi, non sapevo nemmeno al primo momento chi fossi; avevo solamente nella sua primitiva semplicità il senso dell'esistenza, come può fremere nelle viscere di un animale; ero più nudo dell'uomo delle caverne; ma allora il ricordo — non ancora del luogo in cui mi trovavo, ma di qualcuno tra quelli in cui ero stato e dove avrei potuto essere — veniva a me come un aiuto dall'alto per trarmi dal nulla dal quale non avrei potuto uscire solo; passavo in un secondo sopra secoli di civiltà, e l'immagine confusa che intravedevo di lampade a petrolio e di camicie con il colletto piatto, ricomponevano a poco a poco gli elementi originali del mio io.
Forse l'immobilità delle cose intorno a noi è loro imposta dalla nostra certezza che sono esse e non altre, dall'immobilità del nostro pensiero nei loro confronti. Ma sempre quando mi svegliavo in questo stato, il mio animo agitandosi nel vano tentativo di sapere dove ero, tutto girava intorno a me nell'oscurità, le cose, i paesi e gli anni. Il mio corpo, troppo intorpidito per muoversi, cercava, aderendo alla propria stanchezza, di ritrovare la posizione delle sue membra per desumerne la direzione del muro, il posto dei mobili, per ricostruire e dare un'identità alla stanza in cui si trovava. La sua memoria, memoria delle sue costole, dei suoi ginocchi, delle sue spalle, gli presentava successivamente parecchie delle stanze dove aveva dormito, mentre attorno ad esso i muri invisibili, cambiando posto secondo la forma della stanza immaginata, turbinavano nelle tenebre. E prima ancora che il mio pensiero, esitante sulla soglia dei tempi e delle forme, avesse identificato il luogo, confrontando le circostanze, lui, — il mio corpo — si ricordava di ognuno il tipo di letto, la posizione delle porte, la presa di luce delle finestre, l'esistenza di un corridoio, con il pensiero che ne avevo quando mi ci ero addormentato e che ritrovavo al risveglio. Il mio fianco anchilosato, cercando di indovinare la propria posizione, s'immaginava, per esempio, disteso rivolto verso il muro in un grande letto a baldacchino, e subito mi dicevo: « Guarda, ho finito per addormentarmi anche se la mamma non è venuta a darmi la buonanotte », ero in campagna nella casa del nonno, morto da molti anni; e il corpo e il fianco sul quale riposavo, guardiani fedeli di un passato che il mio spirito non avrebbe mai potuto dimenticare, mi ricordavano la fiamma della veilleuse di cristallo di Boemia, a forma di urna, sospesa al soffitto con delle catenelle, il caminetto in marmo di Siena, nella mia camera da letto di Combray, in casa dei nonni, in giorni lontani che in questo momento mi sembravano attuali senza rappresentarmeli esattamente, e che avrei rivisto meglio fra poco quando sarei stato del tutto sveglio.
Poi rinasceva il ricordo di un'altra situazione e il muro si estendeva in una diversa direzione: ero nella mia stanza in casa di Madame de Saint-Loup, in campagna; «mio Dio! sono almeno le dieci, devono aver già finito di cenare! Ho prolungato troppo la siesta che faccio tutte le sere rientrando dalla passeggiata con Madame de Saint-Loup, prima di vestirmi per il pranzo». Infatti molti anni sono passati dal tempo di Combray, dove, quando tardavamo molto a rientrare, vedevo i riflessi rossi del tramonto sui vetri della mia finestra. A Tansonville, in casa di Madame de Saint-Loup, si conduce un altro genere di vita e trovo un altro genere di piacere a uscire soltanto la notte, a percorrere al chiaro di luna quei sentieri sui quali un tempo giocavo al sole; e la stanza dove invece di vestirmi per il pranzo mi sarò addormentato, la scorgo da lontano, al nostro rientro, illuminata dalle luci della lampada, unico faro nella notte.
Queste evocazioni turbinose e confuse non duravano mai più di qualche secondo; spesso la breve incertezza del luogo in cui mi trovavo non distingueva le une dalle altre le diverse ipotesi di cui si componeva, più di quanto non riusciamo a scindere, nel veder correre un cavallo, le posizioni successive che ci mostra il cinetoscopio. Ma avevo rivisto ora l'una, ora l'altra delle camere che avevo abitato nella mia vita, e finivo con il ricordarmele tutte nelle lunghe fantasticherie che seguivano il mio risveglio: camere d'inverno in cui quando si è coricati, ci si nasconde con la testa in un nido che intrecciamo con le cose più disparate, un angolo di cuscino, la cima delle coperte, l'estremità di uno scialle, il bordo del letto e un numero di « Débats roses », che finiamo col cementare insieme, appoggiandovi sopra indefinitamente secondo la tecnica degli uccelli; camere dove, se il tempo è freddissimo, il piacere che si gode è quello di sentirsi separati dall'esterno (come la rondine di mare che ha il suo nido nel sottosuolo nel calore della terra) e dove, avendo il fuoco covato tutta la notte nel camino, si dorme in un'ampia coltre di aria calda e fumosa, attraversata dai bagliori dei tizzoni che di tanto in tanto si ravvivano, sorta di impalpabile alcova, di calda caverna scavata dentro la stanza stessa, zona ardente e mo- * bile nei suoi contorni termici, arcata da soffi d'aria che ci rinfrescano il volto e provengono dagli angoli, dalle parti vicine alla finestra o lontane dal focolare, e che si son raffreddate; — camere estive in cui è gradevole sentirsi uniti alla notte tiepida, in cui il chiaro di luna adagiato sulle imposte socchiuse getta fino ai piedi del letto la sua scala 1 incantata e dove si dorme pressoché all'aria aperta, come I la cinciallegra che la brezza tiene in equilibrio in cima a | un raggio; — a volte era la camera Luigi XVI, così allegra che nemmeno la prima sera vi ero stato troppo infelice, e dove le colonnette che sostenevano leggermente il soffitto si scostavano con estrema grazia per mostrare e riservare il posto al letto; — a volte invece era la camera piccola e tanto alta di soffitto, scavata a forma di piramide sull'altezza di due piani e parzialmente rivestita di mogano, in cui, fin dal primo istante, ero stato moralmente intossicato dall'odore sconosciuto del vetiver, convinto dell'ostilità delle tende viola e dell'indifferenza insolente della pendola che berciava a voce alta come se io non ci fossi, e in cui una strana e impietosa specchiera a base quadrangolare, sbarrando obliquamente uno degli angoli della stanza, si apriva a forza uno spazio che non era previsto nella dolce pienezza del mio abituale campo visivo; in cui il mio pensiero, sforzandosi per ore di divincolarsi, di innalzarsi per prendere esattamente la forma della camera e arrivare a riempire fino in cima il suo gigantesco imbuto, aveva sopportato notti estremamente dure, mentre me ne stavo disteso nel letto, gli occhi spalancati, l'orecchio teso, le narici restie, il cuore che batteva, fino a che l'abitudine ebbe cambiato il colore delle tende, fatto tacere la pendola, insegnato la pietà alla specchiera obliqua e crudele, dissimulato, se non dissipato completamente, l'odore del vetiver e diminuito notevolmente l'altezza apparente del soffitto. L'abitudine! Amministratrice abile, ma tremendamente lenta, che comincia col lasciar soffrire il nostro spirito per settimane in una sistemazione provvisoria che, malgrado tutto, è ben felice di trovare,
perché senza l'abitudine e ridotto ai soli propri mezzi, sarebbe incapace di rendere un alloggio abitabile.
Certo, ora ero del tutto sveglio, il mio corpo aveva virato un'ultima volta e il buon angelo della certezza aveva fermato tutto intorno a me, mi aveva coricato sotto le coperte, nella mia camera, e aveva messo approssimativamente al loro posto nell'oscurità il cassettone, la scrivania, il caminetto, la finestra che dava sulla strada e le due porte. Ma avevo un bel sapere che non mi trovavo nelle case di cui l'ignoranza del risveglio mi aveva in un istante se non presentato l'immagine chiara, almeno fatto credere possibile la presenza. La mia memoria si era messa in movimento; generalmente non cercavo di riaddormentarmi subito, trascorrevo la maggior parte della notte riandando con il pensiero alla nostra vita di un tempo a Combray, dalla mia prozia, a Balbec, a Parigi, a Doncières, a Venezia e ancora altrove, a ricordare i luoghi, le persone che vi avevo conosciuto, ciò che avevo visto di loro, e ciò che di loro mi avevano raccontato.

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Infine, continuando a seguire dall'interno all'esterno gli stati simultaneamente giustapposti nella mia coscienza, e prima di arrivare fino all'orizzonte reale che li avvolgeva, trovo dei piaceri di altro genere, quello di essere comodamente seduto, di sentire il buon odore dell'aria, di non essere disturbato da una visita e, quando al campanile di Saint-Hilaire suonavano le ore, vedere cadere pezzo per pezzo la parte di pomeriggio già consumata finché sentivo l'ultimo tocco che mi permetteva di fare il conto e dopo il quale il lungo silenzio che lo seguiva sembrava far cominciare, nel cielo azzurro, tutta la parte che ancora mi era concessa per leggere fino al buon pranzo che Francoise preparava e mi avrebbe ristorato delle fatiche affrontate durante la lettura del libro, al seguito del suo eroe. E ad ogni ora mi sembrava che l'ora precedente avesse suonato solo da pochi istanti; l'ultima veniva ad iscriversi vicinissima all'altra nel cielo, e non riuscivo a credere che sessanta minuti fossero contenuti in quel piccolo arco azzurro ; compreso tra i loro due segni d'oro. A volte quell'ora prematura suonava addirittura due colpi in più dell'ultima; dunque ce n'era stata una che non avevo sentito, qualcosa che si era compiuto non si era compiuto per me; l'interesse della lettura, magico come un profondo sonno, aveva ingannato le mie orecchie allucinate e cancellato la campana d'oro sulla superficie azzurrata del silenzio.
 
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ramoshy
view post Posted on 25/5/2007, 14:10




salve, vi segnale "se questo é un uomo"
di primo levi, il racconto di levi, ke ha vissuto nei campi di concentramento nazisti ed é sopravissuto

un libro potenzialmente deprimente ma molto interessante; comunque, per gli studenti della grande opera, lo sconsiglio vivamente!

Vi consiglio invece "lo hobbit" di tolkien,
un libro molto simile al signore degli anelli, ma, mi pare, + corto...
é molto bello; in verità, in verità vi dico: é la storia ke precede il signore degli anelli(mi pare proprio ci siano già gandalf, gollum)

to life!
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rametni
view post Posted on 26/5/2007, 17:17




Consiglio il libro "sai baba parla all'occidente", un libro semplice ma molto
potente!


to life!

:_wine:

:_mago:

:_happy:
 
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LiriCeleste
view post Posted on 14/6/2007, 21:01




George Orwell - "Nineteen- eighty -four"

Mi piaceva questa citazione, ma il libro, soprattutto perchè scritto alla fine degli degli anni '40, è una delle cose più intelligenti che io abbia mai letto riguardo ad un possibile futuro.

You believe that reality is something objective, external, existing in its own right. You also believe that the nature of reality is self-evident. When you delude yourself into thinking that you see something, you assume that everyone else sees the same thing as you. But I tell you, Winston, that reality is not external. Reality exists in the human mind, and nowhere else.

“Tu credi che la realtà sia oggettiva, esterna, esistente di per se stessa. Tu credi anche che la natura della realtà sia ovvia ed evidente. Quando inganni te stesso pensando di vedere qualcosa, tu credi che ogni persona stia vedendo la stessa cosa che tu vedi. Ma ti dirò Winston, che la realtà non è esteriore. La realtà esiste nella mente umana, e in nessun’ altro luogo”

:_sun_:
 
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4 replies since 24/5/2007, 15:39   171 views
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